domenica 29 gennaio 2017

Ho amici in paradiso

Ho amici in Paradiso - recensione della commedia con Fabrizio Ferracane

Sono lontani, per fortuna, gli anni orribili dei manicomi lager raccontati nel 1975 nel documentario Matti da slegare di Bellocchio, Agosti, Rulli e Petraglia e aboliti nel 1978 dalla legge 180 o legge Basaglia, dal nome dello psichiatra Franco Basaglia che promosse la riforma psichiatrica. Ma le persone con disagi o handicap mentali, lievi o gravi, ci sono ancora e non esistono dopo quasi 40 anni abbastanza strutture e personale qualificato in grado di accoglierli e aiutarli. Una delle felici eccezioni, a Roma, è quella del centro Don Guanella, dove è ambientata la storia dell'opera prima di Fabrizio Maria Cortese, Ho amici in Paradiso, in concorso ad Alice nella città nell'ultima Festa del Cinema di Roma. L'autore, che conosce la struttura, fa dei disabili accolti dal centro il fulcro di una storia di redenzione narrata in forma di commedia.
Il pretesto è quello che accade a Felice Castriota (Fabrizio Ferracane), un uomo d'affari pugliese che per avidità di denaro ha scelto i partner sbagliati e che accetta di collaborare con la giustizia in cambio di un anno da passare ai servizi sociali in regime di libertà vigilata. Viene dunque mandato a Roma nel centro Don Guanella, dove, inizialmente distaccato e disgustato dal contatto coi “matti”, ci prova subito con arroganza con la bella dottoressa Giulia (Valentina Cervi), ma pian piano si converte (laicamente) grazie proprio ai rapporti con gli ospiti della struttura, sopprattutto Antonio (Antonio Folletto), un ragazzo emiplegico grave che gli racconta di aver messo in scena il Riccardo III e gli fa riscoprire la vecchia passione per la recitazione. Ma le cose si complicano quando il boss tradito, U Pacciu, uscito dal carcere e mandato ai domiciliari, invia due scagnozzi a rapirlo. Alla sua salvezza partono in tanti, incluso un gruppetto dei suoi amici pazienti in una rocambolesca corsa verso la Puglia.
È un piccolo film pieno di buone intenzioni e con momenti divertenti e toccanti Ho amici in Paradiso, il cui principale difetto è quello di mettere troppa carne al fuoco, senza riuscire a cuocerla tutta allo stesso modo. Forse per insicurezza o per eccesso di generosità, Cortese si complica inutilmente la vita, aggiungendo personaggi che non ha tempo di approfondire e che spariscono presto o restano allo spessore di comparse, come la madre di Felice o il figlio adolescente ribelle della psicologa, e trame poco probabili come la parte che coinvolge la vendetta mafiosa, che entra tardivamente nella vicenda e viene risolta frettolosamente, dopo un buffo intermezzo on the road. In fondo non ce n'era bisogno, visto che il cuore del film è l'interazione – ottima e sincera – tra veri attori e veri malati, con la loro ingenua schiettezza e ricchezza emotiva. Sicuramente per gli ospiti del Don Guanella partecipare al film è stata un'esperienza terapeutica interessante e per i bravi protagonisti – a cui si aggiungono Antonio Catania e in un piccolissimo e inedito ruolo Enzo Salvi – un momento di scambio che li avrà arricchiti come artisti e come persone. Ma ciò non toglie che la destinazione ideale per questo prodotto sembra lo schermo tv più che quello cinematografica.

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giovedì 19 gennaio 2017

Life, Animated

Life, Animated - la recensione del documentario candidato all'Oscar

Nell'agguerrita competizione che dovrà affrontare Fuocoammare di Gianfranco Rosi per la conquista dell'Oscar c'è anche Life, Animated, una toccante storia vera diretta da Roger Ross Williams, già premio Oscar nel 2011 per il cortometraggio documentario Music by Prudence. Preceduto dal premio per la miglior regia di documentario al Sundance, da quello del pubblico a Telluride, San Francisco e altri festival in tutto il mondo, arriva anche in Italia questo film sull'esperienza di una malattia terribile come l'autismo, da cui non si può guarire del tutto ma che si può in qualche modo curare, nella storia eccezionale e piena di speranza di Owen Suskind, raccontata in un libro omonmo dal giornalista del New York Times Ron Suskind, premio Pulitzer e documentata poi in questo film.
Come nella maggior parte dei bambini, anche in Owen l'autismo si manifesta intorno ai tre anni. Prima di quel terribile momento, il bambino parla e interagisce normalmente e all'improvviso si spegne come se qualcuno avesse girato un interruttore, inizia ad avere problemi motori e soprattutto perde la capacità di parlare e comunicare col mondo. Nel film, il padre paragona l'accaduto a un rapimento, come se il figlio con cui hai parlato, giocato e scherzato fino a poco tempo prima (come si vede nei filmini famigliari girati prima del manifestarsi della malattia) ti fosse stato portato via. Da lì inizia la consueta, terribile e disperante trafila di molte famiglie (e i Suskind, che sono benestanti, sono comunque favoriti rispetto ad altri nuclei famigliari), con i responsi negativi di medici e psichiatri, fino al tentativo di mandare il figlio in una scuola per ragazzi con bisogni speciali, per scoprire che proprio lì è stato oggetto di bullismo.
A un certo punto, un giorno, si apre uno spiraglio di luce quando Owen, come molti bambini appassionato dei cartoon Disney, ripete una frase de La sirenetta come se volesse effettivamente comunicare qualcosa (la frase, non casuale, è “solo la tua voce”). Il medico però gela le speranze dei genitori, spiegando che spesso gli autistici ripetono semplicemente “a pappagallo” quello che sentono, senza capirne il senso. Solo dopo qualche anno, grazie alla costanza dei genitori e a una marionetta di Jago, la maligna spalla di Jafar in Aladdin (che, per ironia della sorte, è proprio un pappagallo), il padre, calandosi nel personaggio, riesce ad avere uno scambio più lungo col figlio e pian piano, attraverso i film che conosce interamente a memoria, Owen impara di nuovo a parlare e a comunicare, fino a riacquistare l'uso del linguaggio e una certa autonomia.
Nel film lo vediamo diplomarsi a 23 anni, andare a vivere “da solo” in una struttura assistita e lavorare in un cinema, anche se è angosciosa la preoccupazione dei genitori, comune ai molti che hanno figli non autonomi: cosa ne sarà di lui quando non ci saremo più? Owen ha un fratello più grande di 3 anni, Walter, che a suo modo cerca di prendersi cura di lui, renderlo autonomi e insegnargli qualcosa della vita reale, come l'amore per esempio, visto che nel mondo Disney ci sono solo baci a fior di labbra e niente sesso. E quando Owen viene lasciato dalla sua fidanzatina è commovente assistere alla sua disperazione, convinto com'è che, se non si può vivere per sempre felici e contenti, si sarà per sempre infelici.
Dopo gli episodi di bullismo subiti a scuola, il padre scopre in cantina un blocco interamente ricoperto di disegni di Owen: erano tutti "sidekick", le classiche spalle degli eroi Disney, quelli che fanno ridere e che li aiutano a conquistare i loro obiettivi. Ai disegni era poi seguita una storia (bellissima), La terra degli aiutanti perduti", dove un bambino in una foresta li difendeva dal malvagio Fuzzburch, diventando loro protettore. È con gli indifesi, i piccoli, i deboli che Owen si identifica, promettendo di non lasciarli mai da soli. La macchina da presa di Ross Williams è molto discreta, quasi invisibile, e lascia il posto a tratti alle bellissime animazioni che Mac Guff fa della storia inventata da Owen. Colpisce – e va a merito della funzione educativa e della conoscenza della psicologia infantile dei cartoon della Disney - il fatto che per ogni stato d'animo, ogni momento della vita, bello o brutto, Owen trovi una scena e un personaggio di riferimento in film come Bambi, Dumbo, La sirenetta, Aladdin, Peter Pan, Il gobbo di Notre Dame, La bella e la bestia e Il re Leone.
La grande paura di Owen, in fondo, è comune a molti altri ragazzi, solo che nel suo caso, per la sua nuda sensibilità, è moltiplicata per mille: è la paura di crescere e di perdere la magia dell'infanzia. Il suo attaccamento alle vecchie videocassette Disney, il riprodurne i dialoghi e le voci è il suo modo per non cadere nel baratro della solitudine che spesso caratterizza la vita adulta, alla quale vuole però ardentemente partecipare. 
È un percorso di crescita quello di Owen Suskind, raccontato con passione e gioia, che dimostra come un autistico, anche se non può guarire, può comunque vivere nel mondo reale e che, come lui stesso dichiara nel suo bellissimo discorso al convegno di Rennes, ha gli stessi desideri e timori di tutti gli (altri) esseri umani.

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venerdì 6 gennaio 2017

LAUREL & HARDY


Rai Movie sta programmando, dal lunedì al venerdì, in prima serata, i film di Laurel & Hardy. È un segnale interessante, da leggersi in diverse chiavi. Succede che non solo la Rai, ma tutte le più importanti reti abbiano adottato questa politica "passatista" definiamola così. La ragione primaria è semplice: gli investimenti. È notoria e stucchevole la didascalia "non ci sono più soldi" e così occorre giocare al risparmio acquisendo prodotti a basso costo. Le grandi produzioni esistono, in termini di serie, ma vengono trasmesse dalle Pay Tv che hanno le risorse per fare del prodotto televisivo qualcosa che per qualità e ricchezza possa avvicinarsi al grande schermo. Ci sono segnali forti in questo senso, basta essere attenti alla promozione sui due schermi, oppure alla cartellonistica nelle strade: le serie tivù sono ormai prevalenti. Un altro segnale sono i divi: un tempo per un attore affermato in cinema fare della televisione era un impietoso segnale di declino. Adesso invece è una medaglia che si porta dietro contratti cospicui. Alle emittenti in chiaro dunque rimane... il fondo del barile. Anche se a volte, nel "fondo" si può rintracciare della qualità, alta magari. La miriade di emittenti produce un'overdose di offerta che brucia i programmi che vengono inseriti, quasi sempre, senza una logica di palinsesto: significa che ci sarebbero delle fasce, dei target e dei momenti che andrebbero ragionati. Invece ormai si "butta dentro", a caso, qualcuno, nello zapping finirà pure per fermarsi da qualche parte. E dunque ecco la riproposta di vecchie serie, alcune delle quali ebbero, a suo tempo, anche un ottimo gradimento. Il tempo, appunto, permette di resettare la vedibilità di certe offerte. Gran parte risente della veloce evoluzione della comunicazione e del gusto. Qualche serie invece riesce ancora ad essere credibile.
Stan Laurel e Oliver Hardy erano un disegno che appartiene geneticamente alla nostra dotazione, come una Marilyn, capiti e amati in tutti i continenti e lo sarebbero stati in tutte le epoche
Pino Farinotti
A campione: non passa giorno che da qualche parte non spunti un film di Fantozzi. A suo tempo, erano gli anni settanta, le disavventure dell'impiegato rappresentavano una bella invenzione, persino con tiepide implicazioni culturali. Adesso risultano stantie e banali. Piedone -Bud Spencer, coi suoi cazzotti è tristemente sorpassato; Monnezza - Milian anche; l'ispettore Tibbs (serie) risente pesantemente degli anni settanta; Attenti a quei due si salva, appena, per la simpatia di Curtis e Moore; anche i "Bond" di Moore annoiano, mentre resistono quelli di Connery. Miami vice ha compiuto trent'anni ma resiste, in virtù dell'investimento e di una regia non obsoleta. Sembra non risentire del tempo La signora in giallo, per la sua formula divertente e leggera e grazie alla protagonista Angela Lansbury, una fuoriclasse. Anche Colombo lo guardi ancora. Poi c'è Poirot, interpreatato da David Suchet che, fra il 1989 e il 2013 ha coperto quel ruolo ben settanta volte nella famosa serie televisiva. Questa famigliarità gli ha permesso, stagione dopo stagione di diventare, letteralmente, Poirot. E anche un amico fedele di chi ama il giallo classico e l'elegante scenario vittoriano.

In questo contesto: Laurel & Hardy. Con loro ho un rapporto. Due anni fa ho scritto, insieme a mia figlia Rossella, I cento film della nostra vita. Cercavo un'immagine, una sola, che rappresentasse tutto il cinema. Alla fine ho composto un cartello di nomination: Rhett e Rossella abbracciati in Via col vento; Gene Kelly che balla sotto la pioggia; il mimo Jean Louis Barrault sul palcoscenico in piazza di Les enfants du paradis; il cavaliere Antonius Block che gioca a scacchi con la morte ne Il settimo sigillo; il Rex che naviga su quel mare di plastica di Amarcord; Laurel & Hardy in kilt che raccolgono la spazzatura danzando intorno a un bidone ne Gli allegri scozzesi; Charlot col suo balletto del pane ne La febbre dell'oro. Ho scelto Stanlio e Ollio. Dico che nessuno come loro rappresenta il cinema nella sua opzione primaria, che è l'evasione. Nella sequenza che ho detto sopra danzano al ritmo di una marcia scozzese, con le scope in mano. Si vede che improvvisano, inventano gag, movimenti, minuetti. Stan Laurel e Oliver Hardy bastavano a se stessi. Non avrebbero nemmeno avuto bisogno della parola. Erano un disegno che appartiene geneticamente alla nostra dotazione, come una Marilyn, capiti e amati in tutti i continenti e lo sarebbero stati in tutte le epoche: penso a un Napoleone al quale presentassero la Monroe oppure a un Plauto, commediografo del terzo secolo avanti Cristo, che vedesse quella sequenza scozzese. L'invito è, "cadendo" sui due, a non scappare subito, a soffermarsi per qualche momento. Non si cambia più canale.

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