giovedì 27 aprile 2017

Zero Days

Zero Days: recensione del documentario di Alex Gibney su cyber-war e spionaggio digitale

Se pensate, come il sottoscritto, che l’antivirus sia una perdita di tempo, vedendo Zero Days forse cambierete idea, o quantomeno raggiungerete la consapevolezza che avere un Mac non vi mette in salvo dal grande occhio e orecchio che tutto (ci) legge. Alex Gibney è uno dei grandi autori del documentario contemporaneo, sempre pronto a prendere di petto un tema controverso e attuale, riuscendo a realizzare cinema di qualità, lontano sideralmente dal reportage giornalistico, pur affrontando spesso gli stessi argomenti.
Questa volta, in Zero Days, ha davvero sfidato se stesso, senza un chiaro antagonista e un ben focalizzato tema da sviluppare, come in passato la guerra in Iraq, Scientology o il doping di Lance Armstrong. Questa volta insegue il presente, prova ad anticipare il futuro e individua nella guerra digitale, la cyberwar, la grande sfida.
Nello specifico racconta la storia di Stuxnet, un virus autoreplicante, un malware utilizzato come arma offensiva da Stati uniti e Israele per indebolire l’avanzata dell’Iran verso il nucleare. Un attacco sfuggito poi di mano e diffusosi oltre l’obiettivo iniziale, aprendo per la prima volta il vaso di Pandora della cyberwar. Un ulteriore passo verso la spersonalizzazione della guerra, il passaggio dal confronto analogico, fra esseri umani, anche in ambito di intelligence, all’utilizzo dei virus informatici, di una rete minacciosa in grado di infliggere anche danni fisici, come quelli alle turbine nucleare iraniane. Un’arma nata come difesa dal terrorismo digitale, diventata sempre di più strumento offensivo. Risposta in ambito di intelligence ai droni, insieme alle missioni delle forze speciali rappresentano i campi di battaglia delle guerre asimmetriche di questo secolo.
Scegliendo un argomento su cui nessuno vuole esplicitamente parlare, colpa dell’effetto Snowden, dovendo creare un personaggio virtuale, sintesi di tante voci rimaste senza volto, Gibney gira un po’ in tondo, rispetto ai suoi lavori più riusciti, cercando disperatamente di mettere a fuoco la questione e nel farlo talvolta torna più e più volte sugli stessi punti. Ma la sua capacità di rendere Zero Days, fin dal titolo, un vero thriller appassionante, riesce a coinvolgere lo spettatore che abbia la pazienza di seguirlo in un viaggio binario non sempre di facile fruizione.

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domenica 16 aprile 2017

Assassin's Creed

Assassin's Creed: recensione del film con Michael Fassbender tratto dall'omonimo videogioco

Nell'era della cross-medialità (termine orrendo, ma che va tanto di moda), si sta cercando di risolvere da tempo il problema della traduzione della lingua dei videogiochi in quella del cinema, del passaggio tra una forma di racconto immersiva e interattiva a quella passiva e osservante che è propria dei film.
Assassin's Creed, a questo quesito, fornisce una risposta chiara e precisa. Non sarà forse quella ideale, non sarà l'unica possibile, qualcuno nel futuro prossimo la perfezionerà o la rivoluzionerà: non è nemmeno scritto da nessuna parte che sia una risposta che ci deve per forza piacere, ma ciò nondimeno è una risposta. Chiara e precisa.
Del best seller videoludico della Ubisoft, il film di Justin Kurzel riprende mood, temi e personaggi. Lo spirito e l'agire. E fin qui, non ci sono grandi novità. Ma, piuttosto che limitarsi a prendere una linea narrativa cinematografica tradizionale, e intingerla ben bene nel mondo del gioco - trasformandosi così in una storia ispirata a un universo - Assassin's Creed ha scelto una strada radicale, fatta di stravolgimento della sceneggiatura come la conosciamo, per far emergere per quanto possibile la sensazione dell'esperienza. Per rispecchiare attraverso due piani narrativi differenti le parti interlocutorio/esplorative e quelle più d'azione del gioco, e sostituire l'esperienza immersiva di quel medium con rutilanti e virulente scene d'azione che aggrediscono lo sguardo e trascinano via con il fiume in piena della loro energia.
In altre parole: della storia di Assassin's Creed non si capisce un granché: anzi, quasi nulla, soprattutto se non si ha dimestichezza coi videogame. Si intuiscono le linee macroscopiche, e il resto rimane confuso nell'ombra della fotografia scura e austera, ma importa pochissimo: a Kurzel, e probabilmente anche a molti spettatori. Perché quando un pompatissimo e agilissimo Michael Fassbender smette di essere il nevrotico Callum Lynch del presente e dalla mascella sempre tesa, e "viaggia" verso l'Andalusia del 1492 (data non casuale, ma non spoileriamo), infilando il cappuccio e il carisma di Aguilar de Nerha, e andando alla ricerca della Mela dell'Eden che contiene il codice genetico del libero arbitrio umano (sic.), su tante cose ci si smette d'interrogare.
Anche chi non ha mai giocato ad Assassin's Creed conosce probabilmente il look intrigante del suoi protagonista e degli appartenenti alla setta degli Assassini, e le loro capacità letali e acrobatiche: che se già fanno simpatia da sole, nel film di Kurzel esplodono in un tripudio di acrobazie figlie del parkour più estremo e delle arti marziali più spettacolari.
In quel passato spagnolo, Fassbender (e la bella Ariane Labed, da preferirsi alla rigida Cotillard del presente) si muove inarrestabile e devastante, fino a che le esigenze del film, ovvero quelle di uno spettatore che deve pur respirare, riporta tutti a un presente dal gusto massimalista, pomposo e teatrale che Kurzel aveva già mostrato nel Macbeth.
La scellerata sfacciataggine con cui Assassin's Creed ripone tutta la sua fiducia e i suoi sforzi in un'azione che trova in sé stessa la sua giustificazione narrativa, e con la quale si permette di glissare non solo sulla trama, ma su tutto il mondo fanta-storico a sua disposizione (tra Indiana Jones e i fumetti di Martin Mystère) e sulle straordinarie potenzialità, ha un che di perversamente rivoluzionario, per un blockbuster hollywoodiano. Tanto dissennato da fare quasi simpatia. Quasi.

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mercoledì 5 aprile 2017

Mister Felicità

Mister felicità: recensione della nuova commedia di Alessandro Siani

Prosegue il percorso autoriale di Alessandro Siani. Al terzo film da regista, co-sceneggiatore e interprete, il comico napoletano mantiene intatta la formula della commedia per famiglie che il pubblico ha dimostrato di gradire. I precedenti Il principe abusivo e Si accettano miracoli hanno incassato la ragguardevole circa di 15 milioni di euro ciascuno provando che il carisma di Siani faccia una certa presa su una larga fascia d’età.
Mister felicità dunque punta tanto a far ridere quanto a emozionare. Siani alterna il potenziale comico del suo film, cercando di strappare risate da battute verbali e da situazioni slapstick come la mitragliata di noci al ristorante. Le differenze tra ricchezza e povertà del primo film e tra città e provincia del secondo film lasciano il posto a ottimismo e pessimismo. Nella storia l’attore interpreta un indolente disoccupato in Svizzera a che vive a scrocco della sorella. Scambiato per un mental coach capace di risollevare l’istinto motivazionale nelle persone, si trova in casa di una pattinatrice famosa che bisogno di “cure”.
La ricerca di poesia è per Siani ugualmente importante.  La storia sentimentale con l’atleta interpretata da Elena Cucci diventa il pretesto per solleticare la poesia, anche visivamente con ricercate inquadrature particolarmente curate e illuminate. Diego Abatantuono e Carla Signoris sono i bravi comprimari che fanno emergere i loro personaggi senza fatica in un contesto che è effettivamente fruibile da bambini e adulti, magari già addolciti dalle festività natalizie in corso.

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