mercoledì 13 febbraio 2019

LUKE CAGE

Luke Cage

È successo qualcosa dopo Iron Fist. Fino a quel punto, le serie Marvel distribuite da Netflix avevano rappresentato l'eccellenza delle serie sui supereroi, grazie al perfetto matrimonio tra superpoteri e realismo urbano. Le prime stagioni di Daredevil e Jessica Jones erano state lodate unanimemente dalla critica e, nonostante un timido calo nella seconda stagione di Daredevil, le cose sembravano indirizzate per la strada giusta. La prima stagione di Luke Cage, con il suo tono da blaxploitation anni '70, aveva confermato il trend positivo.


Poi Iron Fist ha sbagliato completamente mira, incapace di lasciarsi alle spalle un modello troppo stretto, quello stesso realismo che aveva fatto la fortuna delle prime tre serie e che mal si sposava con storie di città leggendarie e arti marziali magiche. La capacità della Marvel di unire toni e generi apparentemente distanti in un universo coeso sembrava non essere transitata sul piccolo schermo. The Defenders è stata una deludente conferma di questo.

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mercoledì 16 gennaio 2019

THELMA


Un lago ghiacciato, una casa fuori dal tempo e tutto intorno la natura. La prima inquadratura di Thelma potrebbe trarre in inganno: l’angoscia deve ancora arrivare, e la quiete sembra l’unica padrona della scena. Un padre e una figlia vanno a caccia insieme, camminano in mezzo alla neve, fino a quando incontrano un cervo. L’uomo alza il fucile e si prepara a uccidere l’animale, ma all’ultimo mira alla testa della bambina. È l’inizio dell’incubo, metafora di uno scontro generazionale tra genitori e giovani, adolescenti e società.

Thelma ha poteri paranormali, può spezzare una vita solo con il pensiero, come se fossimo in una sorta di Carrie – Lo sguardo di Satana in stile norvegese. Lei è schiacciata da una famiglia eccessivamente religiosa, che non le permette di esprimere se stessa. Non può neanche bere una birra con gli amici, perché le hanno insegnato che è peccato. Nelle sue “crisi” immagina di non poter respirare, di affogare in una piscina da cui non può uscire. Dentro Thelma convivono il bene e il male, come in ogni essere umano, ma è il senso di ribellione a muoverla, a spingerla verso un’incontrollabile sete di violenza.

La società opprime chi insegue i propri sogni, e invita ad abbandonare le ambizioni invece di seguirle. La paura arriva dalla solitudine, dal non avere amici, dal sentirsi continuamente esclusi. Quella di Thelma è una vendetta muta, un istinto che non riesce a dominare. Un demone abita dentro di lei, si alimenta con i suoi desideri più oscuri, con le passioni nascoste, come quella per una sua compagna di università. I benpensanti non le permettono di condividere il letto con una donna, così scatena l’inferno. Il regista Joachim Trier strizza l’occhio a Brian De Palma, ma evita ogni vena splatter. Il sangue non si vede, i colori sono spenti, e la sofferenza fisica si fonde con quella interiore. I ritmi sono lenti, e i brividi arrivano attraverso i tremori delle mani e le luci a intermittenza. I segreti scatenano le tempeste, le furie omicide, ma forse all’orizzonte esiste ancora un barlume di speranza.

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martedì 18 dicembre 2018

12 SOLDIERS

12 Soldiers

L’attentato alle Torri Gemelle non ha cambiato solo la Storia, ma anche il cinema. La paura del nemico che viene da lontano, quasi del tutto sconosciuto, ha contaminato generi e autori, passando dallo sperimentale Cloverfield di Matt Reeves al sottovalutato La guerra dei mondi di Steven Spielberg. Sul grande schermo sono tornati in forze gli eroi muscolari, sospesi tra Stallone e Schwarzenegger, e i war movie hanno trovato nuova linfa.

Archiviate la Seconda Guerra Mondiale e le paludi del Vietnam, ci si sposta in Medio Oriente per combattere il terrorismo ed essere ricoperti di medaglie. Lo spettacolo si trasforma in propaganda in 12 Soldiers, per convincere lo spettatore medio che non tutto è perduto, la nazione è ancora salda e si sta preparando a scatenare una pioggia di fuoco. L’enfasi regna sovrana, l’esercito è pronto a schierarsi, e a volare alta è sempre l’aquila americana.

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giovedì 8 novembre 2018

211 – RAPINA IN CORSO

211 - Rapina in corso

Nicolas Cage, in questi ultimi anni, è diventato un meme. Nel senso vero del termine: la sua faccia, estrapolata da una scena del film Stress da vampiro, è diventata una presenza fissa sui social come risposta sarcastica a un'affermazione ovvia. La recitazione sopra le righe dell'attore è da “incolpare” per questa strana evoluzione della sua figura pubblica. I debiti col fisco, se ascoltiamo le malelingue, sono invece da incolpare per la sua scelta di interpretare quanti più ruoli possibili. Tra questi ci sono indubbie chicche che ci ricordano come il nipote di Coppola sia un attore a tutti gli effetti. Dall'altra parte ci sono i film in cui Cage recita costantemente con lo sguardo a palla, cavalcando la sua fama di pazzo senza particolare sforzo o trasporto. In mezzo ci sono film come 211 – Rapina in corso, che stanno, appunto... nel mezzo.


Il film di York Alec Shackleton sembra un prodotto DTV, cioè direct-to-video, quei film che, in America, si producono esclusivamente per il mercato home video (una volta per i DVD, oggi per l'on demand). DTV può voler dire molte cose: si passa dai sequel di film d'azione di successo con cast completamente diversi (o incentrati su personaggi minori degli originali) ad action troppo timidi o generici per funzionare in sala. Purtroppo, 211, che pure è uscito al cinema, ricade proprio in quest'ultima categoria.

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martedì 16 ottobre 2018

PAPILLON


Ha il sapore di un'occasione sprecata il Papillon di Michael Noer, remake del cult del 1973diretto da Franklin Schaffner con Steve McQueen e Dustin Hoffman nei ruoli principali. Quelli intorno ai quali ruota la storia vera di Henri Charrière, detto appunto Papillon, basata sulla sua autobiografia datata 1969. Una storia eccezionale, di prigionia e resistenza, di umanità e soprusi, alla quale sarebbe stato obiettivamente difficile aggiungere pathos o carattere, soprattutto dopo la trasposizione cinematografica di 45 anni fa.

Un'operazione che già in partenza aveva sollevato qualche perplessità, e un crescendo di dubbi… Sin dalle prime voci apparse nel 2008 (quando il budget del film avrebbe dovuto sfiorare i 90 milioni di dollari) fino alla luce verde arrivata con la conferma degli interpreti: Charlie Hunnam e Rami Malek. Senza scomodare paragoni troppo illustri o mettersi a fare la conta del carisma mancante, sorprende la scelta di voler puntare su una marcata mimesi formale di immagini e protagonisti che furono.

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domenica 2 settembre 2018

UNA VITA SPERICOLATA


Marco Ponti ci tiene molto a sottolineare i legami di questo film con quello suo di maggior successo, Santa Maradona, per il quale tutto sommato gode ancora di un meritato credito da parte di molti spettatori, che l'avevano l'amato. E a citare lo stesso Vasco Rossi, incontrato è conosciuto in passato, e dal quale deriva il titolo di questa sua nuova prova, Una vita spericolata. Quella cui anelano probabilmente i due protagonisti, non più Stefano Accorsi e Libero De Rienzo (qui in un cameo), ma Lorenzo Richelmy ed Eugenio Franceschini.

Sono loro gli interpreti principali dell'inseguimento con la polizia che fa sostanzialmente di questa commedia un Road Movie piuttosto surreale, divertito e autoironico, però anche confuso e a tratti ben più che sopra le righe che esagera spesso nel chiedere al suo pubblico di sospendere l'incredulità. Tutto sommato un film che non sembra aver saputo far seguire a una grande motivazione di partenza una scrittura e una regia (soprattutto degli attori) sufficienti e una realizzazione parimenti fruttuosa.

Si parla di fattore umano, di "squadra perfetta"… quella composta dai due suddetti con la Matilda De Angelis post Youtopia - una delle maggiori promesse del nostro cinema attualmente, dopo anche l'inclusione tra le Shooting Star dell'ultima Berlinale - che però può far poco più che ingentilire il quadro generale e aiutare il film a tenere desta l'attenzione dello spettatore. Una sorta di 'volevamo essere i Blues Brothers' attraverso l'Italia nel quale non mancano nemmeno gli sconclusionati poliziotti alle calcagna dei criminali per caso e buoni per indole.

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martedì 21 agosto 2018

WESTWORLD

Westworld

Ambizione. È questa la parola d'ordine del finale di stagione di Westworld. Un'ambizione talmente vasta da finire, alle volte, per schiacciare sotto il suo peso la comprensibilità dell'episodio (e della serie, in generale). Westworld si è sempre mosso come una serpe tra colpi di scena, timeline, ribaltamenti continui. Contiene i pregi e i difetti maggiori della poetica dei Nolan (qui Jonathan, ma non fa grande differenza): il gusto per ottimi twist narrativi, ma purtroppo anche a scapito della coerenza e senza troppa cura per i dettagli.

Ci sono parecchie svolte, nella serie e in questo finale, che vanno accettate dando per scontato che, “siccome i protagonisti sono robot”, possano fare un po' tutto quello che vogliono. E questo è un peccato perché va a cozzare con una mitologia costruita meticolosamente con grande dispendio di mezzi e pignoleria (altra caratteristica nolaniana).

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