giovedì 28 luglio 2016

Tokyo Love Hotel



Hiroki Ryuichi è un regista giapponse, piuttosto prolifico, che la sua gavetta professionale l'ha fatta nei cosiddetti pinku eiga, popolarissimi film erotici soft-core, poi si è cimentato anche nell'hard e poi ha cominciato a fare cinema per tutti, raccontando storie intime che tratteggiano i rapporti di coppia e sociali nel Giappone di oggi nelle quali, comunque, il sesso fa sempre capolino.
Però non bisogna andare al cinema a vedere Tokyo Love Hotel aspettandosi un film piccantissimo tutto nudi e amplessi. Che ci sono, i nudi (mai integrali, che in Giappone pure il porno vero è censurato) e gli amplessi, ma sono una parte infinitesimale dei tanti eventi che portano il film a essere una sorta di minestrone - lungo, anche troppo, 135 minuti dai ritmi spesso eccessivamente dilatati - nel quale convergono storie e istanze dei tanti personaggi che lo popolano.
Il perno, ovviamente, è il love hotel (sorta di albergo a ore) del titolo, dentro e attorno al quale gravitano le sorti di tutti i personaggi: coppie che si nascondono da anni in attesa che un certo reato passi in prescrizione, escort che stanno per cambiare lavoro, portieri di notte che sognavano i grandi alberghi a cinque stelle, ragazze che si sono date al porno, fidanzate fedifraghe e molto altro ancora.
Da ognuno di questi personaggi e dalle loro storie, Hiroki distilla il tono di un film che non rifiuta affatto la gioia e la risata occasionale, ma che è primariamente intriso di una malincolia profonda: di quella malinconia che deriva dal vedere i propri sogni svaniti, o sempre più lontani, compromessi dalle difficoltà economiche, dalle crisi relazionali, da macroeventi drammatici come quella tragedia di Fukushima le sue conseguenze aleggiano malevole su tutto il film.
Il sesso, allora, come spesso accade, è qui un antidoto alla disperazione, una parentesi di annullamento nella quale perdersi senza pensare a nulla, tantomeno alla propria condizione o alla propria frustrazione. È libero, ma venato di tristezza, sempre o quasi.
E allora ai personaggi di Tokyo Love Hotel la libertà, e la speranza, gli tocca andarsele a cercare da un'altra parte, alla fine. Esplorando un mondo ignoto, e imprevedibile, ma lontano dalle gabbie fisiche delle stanze e dei corridoi ma anche da quelle mentali delle proprie scelte.
Nulla di particolarmente nuovo, né di particolarmente coinvolgente, in un racconto forse troppo faticoso. Ma a Hiroki va riconosciuta una mano leggera in grado di alternare toni e gestire intrecci senza intoppi, e la capacità di trarre il meglio dai suoi attori, tutti scelti ad hoc.

Fonte: comingsoon.it

giovedì 21 luglio 2016

A Dragon Arrives




Persia, 1965: una Chevrolet Impala arancione sbarca sull'isola di Qeshm, nel Golfo Persico. A guidarla è il detective Babak Hafizi, giunto sul posto per indagare sul suicidio di un detenuto politico al confino. Dopo aver constatato che  in realtà è stato ucciso, lo fa seppellire nel vecchio cimitero in mezzo al deserto, vicino al relitto di una nave del XVII secolo, e assiste incredulo all'avverarsi delle parole del becchino del luogo: ogni volta che si seppellisce qualcuno in quella terra, si scatena un terremoto. Per risolvere questo e altri misteri, Babak torna sull'isola all'insaputa dei servizi segreti, con un geologo e un ingegnere del suono che lavora nel cinema.
Da una premessa tanto bizzarra prende il via un film affascinante e misterioso come il Manoscritto trovato a Saragozza, in certi punti arcano per lo spettatore non iraniano ma coinvolgente come pochi. Intitolata A Dragon Arrives! in un dichiarato omaggio dell'autore a Bruce Lee, che non ha punti di contatto con la trama, la storia nasce nella mente del regista dalla strana esperienza di un fonico che, dopo essersi inoltrato nelle vecchie grotte nel Sud dell'Iran, cadde in un crepaccio e quando fu ritrovato disse di aver visto una strana creatura nel sottosuolo, che gli aveva insegnato a parlare tedesco (cosa che provò recitando un poema di Holderlin). Mani Haghighi, regista esperto al suo quinto film, mescola leggenda, storia del suo paese, paranoia e realtà in una location di raro fascino, dove ti puoi aspettare veramente di tutto. Forse la parte che noi occidentali cogliamo meno è quella coi riferimenti ai servizi segreti e alla terribile Savak, la polizia segreta iraniana che operava ai tempi dello Scià.
Ma questo non impedisce di godere di un film pieno di sorprese, come quando all'improvviso (e forse in modo un po' incongruo) ci troviamo trasportati in epoca contemporanea all'interno di un (finto) documentario sui fatti a cui fino ad allora abbiamo assistito o vediamo delle scene di The Brick and The Mirror, girato tra il 1964 e il 1968 – quando è amboentata la storia, di cui diventa parte – da Ebrahim Golestan, famoso regista del cinema iraniano, nonno di Haghighi. Tra i lamenti strazianti dei cammelli che ricordano i versi di creature mitologiche, una gigantesca nave forse infestata dagli spiriti dei prigionieri decapitati secoli prima e sepolti in un inquietante cimitero (uno splendido lavoro di scenografia), scavi proibiti e misteri da non portare alla luce, A Dragon Arrives! riesce a conquistarci, imprimendoci nella retina immagini di rara bellezza e nelle orecchie la colonna sonora di Christoph Rezai, una delle più affascinanti e particolari che abbiamo mai sentito, coi suoi ritmi selvaggi e animaleschi (va sottolineato quanto l'estrema attenzione alla musica e al sonoro accomuni i film della rassegna Nuovo Cinema Teheran).
Sono belli anche i personaggi, ben caratterizzati dai loro interpreti: l'interrogatore, l'ambiguo e pericoloso uomo col cappello e le lenti spesse, l'ingegnere del suono hippy, il geologo con le sue strumentazioni artigianali, il detective abbigliato all'americana e tutti i ruoli di contorno, per quanto piccoli. A Dragon Arrives! è uno di quei film il cui fascino risiede proprio nel suo mistero, che non chiede di essere compreso e spiegato ma vissuto e ci rimanda al lato più fiabesco della cultura iraniana, che Haghighi con grande sapienza innesta sul vissuto storico del suo paese, riuscendo a parlare dell'oggi attraverso metafore e racconti di un passato che ormai non può più fare del male a nessuno.

Fonte: comingsoon.it

mercoledì 13 luglio 2016

La battaglia degli imperi - Dragon Blade




In parte è il cinema hollywoodiano come punto di riferimento per creare entertainment su larga scala, in parte è la tradizione orientale tra filosofia di vita e arti marziali. Il punto di raccordo è ovviamente Jackie Chan, attore protagonista, produttore, coordinatore dei combattimenti (non accreditato) e soprattutto icona del cinema cinese con una carriera internazionale senza eguali. Non è difficile farselo piacere, sapendo di trovarlo in qualunque contesto affabile, brillante e acrobatico, così come lo è in questo monumentale fantasy storico. Siamo sulla Via della Seta nel 48 a.C. al confine con la Cina, quegli 8000 km di strada che univano l'Asia Centrale con il Mediterraneo passando per il Medio Oriente. Scambi commerciali, culturali e artistici tra Roma e l'Oriente erano all'ordine del giorno, ma in Dragon Blade lo sceneggiatore e regista Daniel Lee si immagina che a sorvegliare la Via e a calmare gli animi dei guerrieri di passaggio ci fosse una sorta di pattuglia di sette uomini a cavallo, sotto l'ordine di una vicina prefettura. Jackie Chan è il comandante, un pacificatore convinto e funzionale ed è con lui che John Cusack, nei panni del centurione romano Lucius, prima combatte poi stringe amicizia perché i suoi soldati sono allo stremo e il piccolo erede al trono che sta proteggendo ha bisogno di cure.
Ci si può chiedere quale motivo possa spingere un attore americano a partecipare a un kolossal cinese e, al di là dell'ipotetico generoso compenso, appare evidente che possa essere un'esperienza di lavoro immersiva e culturalmente preziosa. Lo sa bene Adrien Brody che è alla sua seconda immersione asiatica dopo 1942 e che qui interpreta il malvagio Tiberius. Il film inizia ai giorni nostri con due archeologi hi-tech in cerca della fantomatica città di Regum, più leggenda che realtà ma ancora per poco. La storia è raccontata in flashback, con ampie licenze fiabesche pensando all'esteso range anagrafico del pubblico di Jackie Chan. La veridicità storica non è prioritaria, lo sono il divertimento, la scenografia, i costumi, le acrobazie degli stuntman e, purtroppo, quel look estetico fatto di colori desaturati e riprese in slow-motion che già nel cinema USA hanno iniziato a essere ridontanti e che non necessariamente debbano essere sinonimo di epico. La visione è comunque gradevole, basta sintonizzarsi su un livello ri ricezione elementare e mandar giù alcune banalità narrative.

Fonte: comingsoon.it

domenica 3 luglio 2016

A Girl Walks Home Alone at Night



Nell'immaginaria città iraniana di Bad City si aggirano strani personaggi: un ragazzo rockettaro che vive col padre tossicodipendente, un violento spacciatore, ladro e magnaccia, una triste prostituta, una ragazza ricca e una giovane che appare d'improvviso nella notte vestita col velo tradizionale ma è tutt'altro che indifesa, visto che è un vampiro. Tra lei e il ragazzo nasce un'inconsapevole attrazione che li unirà in una singolare fuga. Preceduto dai premi vinti in molti festival, da Sitges a Bucarest, da Deauville a Dublino, dopo la presentazione al Sundance del 2014, arriva finalmente anche nelle nostre sale il primo “western vampiresco iraniano”, opera prima dichiaratamente ambiziosa della trentaseienne Ana Lily Amirpour, regista di origini iraniane ma nata a Londra e da sempre vissuta in America.
Questo spiega lo sguardo occidentale su quello che appare come un ritorno alle origini, filtrato attraverso gli occhi di una cinefila cresciuta col cinema indipendente americano. In questo senso A Girl Walks Home Alone at Night - titolo bellissimo lasciato giustamente in originale – è un po' l'intruso tra i quattro della rassegna Nuovo Cinema Teheran, perché è cinema della diaspora, tipico di quelle generazioni di iraniani che non hanno mai conosciuto il paese natio o lo hanno lasciato da molto tempo per vivere e lavorare in Occidente. La Bad City del film, come riconosce la stessa autrice, è il loro mondo, pieno di riferimenti alla pop culture con cui sono cresciuti. Il protagonista è ispirato a James Dean e guida spavaldo – anche se per poco – una Ford Thunderbird e la prostituta malinconica sembra uscita da un film francese.
Unico elemento veramente originale e caratterizzante in senso etnico la storia è la vampira vestita con il lungo chador nero che indossa per cacciare e che non a caso rappresenta la minaccia che richiama questi personaggi senza identità alle loro radici, pericolosa sirena che preda solo tra coloro per i quali non c'è più possibile ritorno in società. A Girl Walks Home Alone at Night è un film dalle atmofere dilatate e rarefatte, quasi oniriche, girato in un bellissimo bianco e nero e in formato anamorfico, con qualche tocco di umorismo e una marea di citazioni. In questo senso è uno di quei film i cui difetti paradossalmente coincidono con i pregi,
Come spesso avviene quando si arriva finalmente all'opera prima, è un pot-pourri di omaggi e suggestioni: Amipour ha fin troppo presente la lezione del primo Jarmusch e del Lynch degli esordi (impossibile non pensare ad Eraserhead) e negli inseguimenti della sua vampira c'è un'eco del Bacio della pantera di Jacques Tourneur. C'è anche una divertente strizzata d'occhio a Ritorno al futuro quando la ragazza vampiro adotta lo skateboard come mezzo di locomozione. E ovviamente il richiamo a Sin City e il bianco e nero da graphic novel sono tutt'altro che casuali, come non lo sono le musiche alla Morricone e l'omaggio al western all'italiana.
Le parti più belle del film sono a nostro avviso quelle in cui la ragazza si rilassa nel suo covo e le sue improvvise apparizioni, che sembrano davvero uscite da un fumetto, tanto che la regista ha deciso dopo il film di dedicargliene uno in forma di prequel. Ottima è anche la colonna sonora scelta dall'autrice, una compilation del miglior rock iraniano. La stoffa insomma sicuramente c'è, ma per capire cosa possa davvero fare Amirpour con questo talento preferiamo aspettare la sua opera seconda e la rivelazione del suo vero e originale stile – che qua si intravvede appena – sperando che con questo debutto abbia reso sufficiente omaggio ai suoi maestri.

Fonte: comingsoon.it