martedì 28 marzo 2017

Nebbia in agosto

Nebbia in agosto: la recensione del film di Kai Wessel in uscita per il giorno della memoria


Nella Germania del Sud dei primi anni '40, Ernst Lossa è un tredicenne di etnia nomade jenisch, orfano di madre e con un padre ambulante che non può prendersene cura. Dopo una trafila di famiglie affidatarie e il riformatorio, arriva nel reparto psichiatrico dell'ospedale gestito dal dottor Veithausen con la nomea di ragazzo problematico. Rassicurato dalle promesse del medico, Ernst si fa ben volere e trova uno scopo nell'aiutare i ragazzi più deboli. Ma quando scopre che un numero crescente dei suoi amici muore per misteriose e fulminanti polmoniti, capisce che vengono uccisi e cerca di ribellarsi con tutta la forza della sua innocenza a una macchina inumana lanciata alla sua massima potenza.
Tra gli indicibili crimini contro l'umanità perpetrati dal nazismo, ancora poco si sa dello sterminio di oltre 200.000 persone – tra cui 5000 bambini e ragazzi - disabili o ritenuti incurabili e incapaci di lavorare, avvenuto tra il 1939 e il 1944 proprio nei luoghi di cura, soprattutto psichiatrici, col pretesto di una pietosa eutanasia ma con lo scopo di depurare la razza ariana degli elementi considerati nocivi. Una rupe Tarpea del ventesimo secolo, gestita col rigore, la precisione e l'assoluta freddezza di un meccanismo che sapeva di poter contare sulla collaborazione di molti volenterosi carnefici. E quando i trasporti e gli omicidi dei malati nelle camere a gas suscitarono proteste e sdegno tra la popolazione, l'efficiente macchina del Reich continuò il suo programma con più discrezione, con la cosiddetta Operazione T4 (sigla dell'indirizzo della villa berlinese dove venne prese la decisione).
Per molto tempo questa tragedia è stata ignorata dagli studiosi e dunque dalle varie commemorazioni, fino a che sono stati aperti gli archivi delle cliniche ed è stato reso noto questo ennesimo capitolo dell'orrore. È degno di nota il fatto che il medico che dal 1980 al 2006 ha gestito la clinica psichiatrica in cui è avvenuta la storia di Ernst Lossa ha fatto da consulente al film. Se l'Italia, infatti, non ha ancora fatto i conti col suo passato, la Germania lo sta già facendo da un pezzo ed è particolarmente significativo che arrivi proprio da lì, sulla scorta di un libro del giornalista e sceneggiatore Robert Domes, un film importante come Nebbia in agosto, che ci fa conoscere una delle tante e terribili storie vere che si sono svolte ai margini dei campi di sterminio.
Per un professor Giovanni Borromeo– un Giusto tra le nazioni – che inventò il terribile Morbo di K per tenere lontani i nazisti dai suoi pazienti ebrei al Fatebenefratelli e tanti altri suoi colleghi che resero onore alla loro missione, ce ne furono altrettanti che tradirono il giuramento di Ippocrate per mettersi al servizio di un’ideologia disumana e utilizzarono persone inermi come cavie di atroci esperimenti - come il famigerato e mai catturato dottor Mengele - oppure, come il dottor Veithausen del film, teorizzarono modi migliori e più economici per accelerare la dipartita di esseri giudicati inutili e nocivi, con la collaborazione di sottoposti che obbedirono agli ordini senza protestare. Quasi tutti, purtroppo, rimasti impuniti.
È già orribile immaginare uno scenario simile in generale, ma il film fa di più: ci fa conoscere (e amare) Ernst, un ragazzo fiero, sfacciato e ladruncolo ma generoso e sensibile, e i suoi compagni con la loro voglia e diritto di vivere, restituendo loro nome e dignità. Perché, come scriveva il premio Nobel Henrich Böll, “il segreto dell’orrore sta nel particolare” e più della sofferenza di masse anonime e sconosciute sono le storie individuali che ce lo fanno capire e sentire con maggiore intensità. Le dittature tolgono alle loro vittime vestiti, capelli, nome e identità per marchiarle con dei numeri, ma se sappiamo i loro nomi, vediamo i loro volti, conosciamo le loro storie, ci sono subito più vicini. A colpirci al cuore e a farci gridare "mai più" sono la bambina col cappotto rosso di Schindler’s List, Anna Frank che sogna il futuro scrivendo il suo diario, rintanata per due anni nel nascondiglio della casa di Amsterdam, Ernst Lossa col suo coraggio, impotente Davide contro un mostruoso Golia.
Tutte storie vere che dovrebbero invitarci a ricordare che questo è stato e non dovrebbe più accadere e che proprio perché lo stiamo dimenticando si ripete oggi in altre parti del mondo, come la Siria e la Nigeria. Nebbia in agosto è un film che rende davvero onore alla Memoria dei milioni di vittime innocenti della storia, e lo fa in modo coinvolgente, rigoroso e contenuto, con molte scene che restano impresse nella memoria e un’unica veniale concessione alla retorica cinematografica in un finale che ci ha ricordato Qualcuno volò sul nido del cuculo. Gran parte del merito va anche agli attori, a partire dai due protagonisti, il giovanissimo, straordinario Ivo Pietzcker e il veterano Sebastian Koch, premiatissimo interprete di Le vite degli altri, che ha messo spesso il suo talento, con lodevole impegno civile, al servizio di film che fanno luce sulla storia più buia del suo paese. Nebbia in Agosto è un tassello prezioso aggiunto alla storia di un secolo e di un’umanità dai cui errori non riusciamo proprio ad imparare, un film che speriamo sia visto da molti e che soprattutto nelle scuole troverà un pubblico ancora incontaminato, in grado di recepirne il messaggio.

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lunedì 13 marzo 2017

Maestro Recensione

Maestro: recensione del documentario sulla musica nascosta dei campi di concentramento


Piccole note rotonde e panciute vergate su pentagrammi di fortuna con l’inchiostro o più spesso con il carboncino; partiture scritte di getto e nascoste scrupolosamente; suite e sinfonie composte nelle stanze della tortura per non contemplare l’orrore; canzoni della disperazione cantate silenziosamente e impresse in maniera indelebile nella mente. In altre parole, musica: quella inventata da ebrei, zingari e prigionieri politici internati nei campi di sterminio durante la Seconda Guerra Mondiale per rispondere, con malinconica dolcezza, all’amarezza di una non vita e per resistere, attraverso l’esercizio della libertà creativa, al carcere della morte e dell’annientamento della dignità umana.
Che siffatto patrimonio artistico esistesse lo immaginavamo, ma senza il miracoloso operato del pianista Francesco Lotoro, fondatore dell’Orchestra di Musica Concentrazionaria, probabilmente non sarebbe mai arrivato fino a noi, sospinto oltre le cortine di un eterno presente che ci rende dimentichi della nostra storia anche dal documentario Maestro di Alexandre Valenti, che questa miracolosa avventura ce la racconta con semplicità e umanità.
Al di là dell’importanza del film, che è uno dei tanti che La Giornata della Memoria "edizione del 2017" impone alla nostra attenzione, la testimonianza del regista argentino - che ci piace definire "un road movie della memoria" - è bella e coinvolgente perché è il ritratto di un uomo guidato sì da un dovere (che ha molto a che fare con la sua conversione all’ebraismo), ma animato soprattutto da sentimenti fortissimi a cui non è mai riuscito a non abbandonarsi con immenso struggimento. "Signore, insegnami a controllare le emozioni", dice a metà doc l’eroe di Barletta, che gira l’Europa e risolve enigmi proprio come Sherlock Holmes. Attraverso i suoi occhi sgranati per la meraviglia e per l’entusiasmo di affrontare continue sfide possiamo rivolgere uno sguardo nuovo ai tanti ex prigionieri di Auschwitz, Mathausen o Terezìn, perché aldilà dei numeri segnati indelebilmente sulle braccia, intuiamo caparbietà e dolcezza, forza e urgenza.
Non che Valenti cerchi la facile commozione. No, fra le immagini di repertorio con montagne di cadaveri e corpi emaciati su cui stanno appese le divise a righe, l’attenzione è rivolta piuttosto all’intelligenza e alla voglia di sfuggire all’oblio dei tanti musicisti così come alle varie tappe di cui si compone la missione del cacciatore di concerti: le segnalazioni, il viaggio spesso con un budget ridotto, gli incontri, l’archiviazione, la ricostruzione, l’esecuzione, la restituzione dell’opera d’arte in tutta la sua bellezza a chi per primo l’ha concepita. Il tutto in una lotta strenua contro il tempo, che d’improvviso, passando, arresta i cuori di uomini e donne che hanno più di 100 anni, come la vivace Wally Loewenthal Kraveno, un tempo ragazza carina da morire dagli occhi azzurro-viola che non ha avuto la possibilità di sentire il suo concertino op. 28 per pianoforte.
Scapigliato e tenero nel suo goffo accento francese e inglese, Francesco Lotoro guida 75 minuti di film come un valoroso condottiero, li cavalca alternando la sua vicenda personale ai ricordi di nipoti di e figli di, figli che vogliono tramandare e figli che vogliono dimenticare, perché il passato sovente è un macigno troppo pesante perfino per Atlante. L'impresa è appassionante e ci restituisce personaggi (anzi, persone) di cui vorremo sapere di più.
Rispettoso delle esistenze che racconta e del messaggio che reca con sé, Maestro ha reso più facile e più economicamente sostenibile il lavoro di Lotoro, che forse potrà concludere prima del previsto la sua Enciclopedia di Musica Concentrazionaria e trovare una casa, o una citttadella per tutti gli spartiti. Conoscere e parlare del suo operato dovrebbe essere un must per ognuno di noi, perché senza la memoria non siamo nulla. E allora il nostro consiglio è di andare al cinema a vedere questo documentario, e di prendete ispirazione dalle difficoltà per inventare, magari per scrivere un’intera Biblioteca di Allessandria, che forse un lontano domani qualcuno saprà con solerzia riportare in vita.

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giovedì 2 marzo 2017

Your Name

Your Name - La recensione dell'anime di Makoto Shinkai


L'adolescente Mitsuha e il coetaneo Taki non si conoscono: lei vive nel provinciale paese montano di Itomori, lui vive a Tokyo. Nei giorni che vedono l'imminente passaggio di una cometa vicino alla Terra, per qualche ragione, capita che in alcune giornate l'anima di lei finisca nel corpo di lui, e viceversa. Sulle prime sconvolti dall'inspiegabile fenomeno e dalle sue tragicomiche conseguenze, i due imparano a comunicare e conoscersi, almeno finché...
L'anime Your Name, scritto e diretto da Makoto Shinkai per la Comix Wave, arriva in Italia con un'uscita evento di tre giorni, a furor di popolo: a sorpresa dello stesso Shinkai, è diventato il quinto più grande incasso della storia su suolo giapponese (140 milioni di dollari!), nonché il primo anime non di Hayao Miyazaki a superare i 100 milioni di dollari in patria. Dopo averlo visto, non è difficile capire perché.
Your Name usa la tradizione anime per raccontare il Giappone col cuore in mano, metabolizzando sì suggestioni cinematografiche anche occidentali (si pensa a Tutto accadde un venerdì e cloni), ma mettendole al servizio di una visione del mondo passionale, mistica e problematica che chiunque conosca i temi degli anime più rinomati non stenta a riconoscere. Mitsuha è spinta da sua nonna a perpetuare tradizioni religiose di cui non capisce il senso, tradizioni lontane anni luce dalla città in cui vive Taki, che oltre a ignorare il passato culturale di quella terra ne ignora persino l'esistenza. E' però proprio quella visione antica dell'universo e del divino (pagano, si direbbe con gli occhi cristiani e occidentali) che compie due miracoli: illumina di misticismo il mistero della connessione amorosa e sessuale che i più fortunati di noi sperimentano, e dà un sapore originale, arcaico, a temi narrativi in altri casi declinati con la fantascienza.
Shinkai, premiato in questo caso dal pubblico anche per una ricerca di leggerezza e commedia assenti in altri suoi lavori, procede deciso: il suo cinema usa la fantasia per spiegare lo straordinario inspiegabile degli affetti, del destino, della natura, del tempo e delle crudeli apocalissi che il Giappone ha subìto e da cui si è saputo rialzare. E la vertigine che costruisce funziona, sbatacchiando gli spettatori tra una risata, un'angoscia terribile (a metà della vicenda, non possiamo spoilerare) e una risoluzione liberatoria che spinge a pescare fazzoletti. E' raro che tra una classica smorfia anime e l'altra, si tocchi con mano così bene il terrore e la fascinazione per le nostre esistenze, effimere e incredibilmente significative allo stesso tempo.
Anche se, volendosi soffermare su alcune soluzioni stilistiche più scontate, Your Name forse non è all'altezza formale di gioielli precedenti di Shinkai come Il giardino delle parole (attualmente su Netflix) e 5cm Per Second, è però tuttavia più solare, positivo e motivante di questi ultimi, senza rinunciare al sentimento sperticato che lo contraddistingue. C'è chi vede in lui il nuovo Miyazaki (qualche tema è in comune, in effetti), ma Your Name ha un'identità più chiara d ell'omaggio esplicito allo Studio Ghibli di qualche anno fa, cioè Viaggio per Agartha. Con un responso di pubblico e critica di questa portata, peraltro giudicato "terrificante" da lui stesso, imbarazzato dal paragone con Hayao, Makoto Shinkai, classe 1973, adesso è Makoto Shinkai e basta.

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