domenica 26 febbraio 2017

Riparare i viventi

Riparare i viventi: recensione del film con Emmanuelle Seigner e Anne Dorval



E’ folgorante e meravigliosa, potente e lirica - e quasi metafisica alla luce di ciò che avverrà dopo - la sequenza in mare di Riparare i viventi, che, dopo un addio fra innamorati all’alba alla "Romeo e Giulietta", fotografa l’attesa sulla tavola da surf (da parte di 3 ragazzi) del tubo in cui infilarsi e poi dell’onda da cavalcare per fondersi con l’acqua, la natura e il cosmo nella sua interezza, regalando un senso di gioia e di compiutezza che che l’ostilità delle condizioni climatiche non può in nessun modo guastare. E’ straordinaria (anche nel suo colore grigio, la sua luce fioca e nello stile di regia che la innalza al di sopra di molto cinema contemporaneo) perché racconta, in breve, l’energia pulsante di un corpo giovane, fiero e trionfante, un corpo strappato alla vita e ai palpiti dell’adolescenza che diventa l’involucro di un cuore da trapiantare in un altro petto, meno giovane, più stanco, più affannato.
Disteso prima in un letto d’ospedale e poi sul lettino di una sala operatoria, questo corpo costituisce il punto di partenza di un vorticoso girotondo schnitzleriano di quasi due ore, del diario intimo di una summa di esistenze che ruotano tutte intorno al bisogno di trovare la propria conferma nell’affetto dell’altro. E difatti, pullula di figli che vogliono il bene dei genitori, di genitori che non si rassegnano a perdere i figli, di uomini che amano donne, di donne che amano donne e uomini e donne che forse un giorno si ameranno il terzo film di Katell Quillévéré, ed è una cosa importante e bella, perché non è facile narrare la vita e la trepidazione quando si parla di morte, pur appoggiandosi a una storia già messa per iscritto da altri.
E comunque, per la regista, adattare il famoso e omonimo romanzo di Maylis de Kerangal non è stato affatto semplice, dal momento che la vicenda di Simon che “salva” Claire gridava al rispetto di una vasta pluralità di punti di vista e imponeva, nella gestione della disperazione e della preoccupazione, una generale sobrietà. La nostra impressione è che nel film la seconda regola sia stata seguita più della prima. Lo dimostra il fatto che Riparare i viventi rifiuti per esempio di costruire un microcosmo ospedaliero frivolo come quello di un Grey’s Anatomy, insista sulla dignità di un dolore che porta a implodere più che a esplodere, e soprattutto restituisca la verità di due operazioni a cuore aperto senza indulgere nel macabro o nella facile spettacolarizzazione.
Quasi documentaristico per come immortala le fasi dell'intervento, in questa parte il film non è affatto freddo, perché prima di arrivare a quella violazione della pelle (e quindi del nostro sacro involucro) che è la chirurgia, si sofferma, con piccoli tocchi leggeri, su un’umanità in cui brulicano le emozioni e le passioni, che affiorano inevitabilmente nel luogo di lavoro. E poi ci sono il volto intenso della madre coraggio Emmanuelle Seigner, lo sguardo dolce della mamma bambina Anne Dorval - che guarda E.T. alla televisione insieme ai figli - e c’è soprattutto quell’unico flashback che ci mostra Simon che corre in bicicletta per dare il primo bacio alla ragazza che gli piace. E il suo cuore batte, e batte anche il cuore del film.
Passando al mosaico di vissuti, ai destini che si intrecciano, al passaggio del testimone da un personaggio all’altro, non sempre Riparare i viventi riesce ad accordasi al respiro del libro di partenza, restringendo il numero, per così dire, degli approfondimenti psicologici, o svelando particolari che solo la conoscenza del romanzo può illuminare di significato. E allora forse sarebbe stato meglio limitare le prospettive da cui guardare il mondo, e magari anche movimentare di più la parte dedicata a Claire, in cui il ritmo rallenta e il film si impenna prima della cavalcata finale: prima del momento in cui bisogna proprio chiedersi (ed ecco la metafisica) come mai, nonostante i progressi della medicina, l'antico dilemma della morte continui, implacabile, a tormentarci, irrisolto, durissimo, inaccettabile.

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mercoledì 15 febbraio 2017

Billy Lynn - Un giorno da eroe

Billy Lynn - Un giorno da eroe: la recensione del film di Ang Lee


Il soldato Billy Lynn (Joe Alwyn), in compagnia di alcuni suoi commilitoni e del sergente Dime (Garrett Hedlund), nel 2004 è ospite d'onore della partita dei Dallas Cowboys, nel Giorno del Ringraziamento. Billy è stato ripreso dalla telecamere mentre in Iraq si esponeva per salvare la vita del sergente Breem (Vin Diesel), senza riuscirvi. Diventa tuttavia un simbolo insieme agli altri ragazzi, ma soffre di stress post-traumatico e ha la tentazione di accettare il consiglio di sua sorella Kathryn (Kristen Stewart), antimilitarista convinta e indiretta causa del suo arruolamento. Chi è Billy?
Come spettatori ci poniamo la stessa identica domanda, ma possiamo estenderla anche al film stesso: cos'è Billy Lynn - Un giorno da eroe, tratto dall'omonimo romanzo di Ben Fountain? Una satira, come farebbe pensare l'uso di commedianti tipo Chris Tucker e Steve Martin, in ruoli patetici o ipocriti? Un dramma sentimentale in difesa dei soldati americani? Un romanzo di formazione? Un'allucinazione? Da ciascuno dei punti di vista potremmo avvallare tutte queste ipotesi: il suo regista Ang Lee, che a maggior ragione dopo Vita di Pi sa qualcosa di inganni e meccanismi psicologici di difesa, costruisce il "giorno da eroe" come una trincea psicologica nella quale ci scaglia insieme a Lynn: ci chiede di essere confusi tanto quanto Billy, in una giornata che lo riempie d'onori e specchi per le allodole, intervallata da flashback al fronte e a casa, in una centrifuga in cui coreografia bellica e allestimenti massmediatici sono indistinguibili. Gioca con l'ideologia liberal e pacifista, scegliendo persino un'attrice militante come Kristen Stewart, ma rischia grosso quando preme il pedale della retorica, trasferendo satira e disprezzo solo su chi è il mandante della guerra, donando fascino al sacrificio militare fine a stesso, teorizzato dal defunto "filosofo" sergente Breem. A ben vedere, lo sguardo sull'America che si evince dal film potrebbe essere quello sulla figura di Faison (Makenzie Leigh), la sexy cheerleader che fa girare la testa a Billy: seducente, incapace di assumere un punto di vista che non sia tradizionale, eppur sincera nei suoi limiti, perciò non davvero criticabile. E' la retorica di cui sopra a trasformare in ambiguità quella che poteva essere una provocatoria equidistanza, in grado di scatenare qualche discussione più accesa all'uscita dalla sala.
A sostenere meglio l'idea di un'identificazione totale tra pubblico e Lynn c'è la ripresa: Ang Lee e il suo direttore della fotografia John Toll sono stati i primi a girare un lungometraggio di fiction in 3D 4K a 120 fotogrammi al secondo, lì dove la normale ripresa cinematografica viaggia sui 24, escludendo gli esperimenti a 48fps di Peter Jackson con la trilogia dello Hobbit. Anche se la versione originale in 120fps si è vista solo in cinque sale (costosamente) attrezzate negli States, rimangono tracce della peculiare strategia visiva anche nella versione da noi distribuita nei canonici 24fps, comunque convertita sotto la supervisione di Lee. Il quadro, mediamente molto luminoso, è composto tanto in verticale quanto in orizzontale, al punto che il rapporto d'immagine 1,85:1 viene percepito in modo volutamente slanciato (quasi fosse un 1,5:1). In svariati campi e controcampi gli sguardi dei personaggi finiscono in macchina e non, come di consuetudine, al lato dell'obiettivo. Tutto in funzione di una sensazione di presenza esasperata, che rende il trattamento dell'immagine più sperimentale di quanto possa sembrare a prima vista, al netto dei pacchiani schermi dei cellulari fluttuanti in sovraimpressione. E' stata annunciata un'edizione home video Ultra HD 4K a 60fps (un altro primato), che sarà già più vicina all'ipernitidezza e alla disorientante fludità che Lee cercava per questo squilibrato ma curioso film. 

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lunedì 6 febbraio 2017

Il Diritto di Contare

Il diritto di contare: la recensione del film candidato a tre premi Oscar

Ci sono storie che, davvero, vale la pena vengano raccontate: e la storia di Katherine Johnson, e delle colleghe Dorothy Vaughn e Mary Jackson, è senza dubbio una di quelle. Bene, quindi, che dopo il libro che ha dedicato loro Margot Lee Shetterly, arrivi ora un film diretto da Theodore Melfi.
Il diritto di contare, va detto subito, è un feel good movie e niente di più (e non a caso in America è uscito per Natale), perché non ambisce a essere altro. Gli basta la storia, raccontarla, come è giusto e bello che sia, con una lingua semplice e diretta, senza vezzi o ambizioni di fare cinema alto e raffinato. No, qui tutto e tutti sono al servizio della storia.
Solo la vita poteva sceneggiarla così, la vicenda di queste tre donne nere che, nell'America del 1961 (nella Virginia del 1961, che, come viene ricordato, era ancora uno stato fieramente segregazionista: e parliamo di poco più di 50 anni fa), hanno dato un contributo fondamentale allo sviluppo della NASA. Senza la Johnson, in particolare, John Glenn non sarebbe stato il primo americano nello Spazio, o forse sarebbe morto in missione. Senza di lei, gli Stati Uniti non avrebbero messo piede e bandiera sulla luna.
Tutto questo grazie a Katherine Johnson. Nera. E donna. Nell'America e nella Virgina del 1961: due anni prima della marcia su Washington del Reverendo King, e quando Kennedy stava ancora lavorando sulle leggi che avrebbero garantito i diritti civili alla popolazione afroamericana e che sarebbero sfociate nel Civil Right Act, o dell'istituzione della Commissione Presidenziale sullo Status delle Donne.
Da un lato il sogno di Katherine Johnson, e di Dorothy Vaughn e Mary Jackson, quindi; dall'altro il sogno kennediano della conquista dello Spazio. Due sogni e due utopie che si sono realmente intrecciate come solo la realtà può fare, e che sono diventati realtà grazie alla capacità di poche persone di essere visionarie. Di guardare oltre i numeri, come dice Kevin Costner nei panni di Al Harrison, director of the Space Task Group, e vedere qualcosa che non c'è ancora: essere già lì, dove il resto del mondo deve ancora arrivare.
Yes We Can, si sarebbe detto fino a poche settimane fa.
Con un materiale del genere a disposizione, che praticamente si è scritto da solo, a Melfi non rimaneva moltissimo da fare, ed è stato bene attento a farlo senza commettere troppi errori. Perché, per esempio, ti spaventa subito con un incipit vagamente seppiato, nel quale la Katherine bambina vede letteralmente le forme geometriche animarsi mentre il mondo scopre il suo genio e sotto gli archi trionfano impetuosi, ma poi passa tutto il resto del film a dire "vedi? mica ho fatto quella roba lì dell'inizio."
E va anzi riconosciuto che, per un film di questo tipo, il livello della retorica e della melassa sentimentale è sorprendentemente basso. Basterebbe, in questo senso, pensare a come Melfi gestisce la storia di Katherine che deve correre per un km ogni volta che deve andare in bagno, perché nella palazzina dove svolge il suo nuovo, importante compito, di bagni per "colored" non ce ne sono: toni che, soprattutto all'inizio, sono più da commedia che da dramma.
Insomma, Melfi fa il suo lavoro; si mette al servizio della storia, e ci mette tre bravissime protagoniste (Taraji P. Henson, Octavia Spencer e Janelle Monáe), supportate da un cast bianco scelto con intelligenza: dal citato Costner, che nei film ambientati in quegli anni ci sta sembre bene, ed è burbero quanto basta, a Kirsten Dunst e Jim Parsons - bianchi un po' rigidi e un po' ariani che "non ho niente contro di voi", dicono, sottintendendo "voi" neri , esplicitando senza volerlo il problema ("Lo so. So che è quello che lei crede", gli risponde infatti Octavia Spencer) - passando per il Glen Powell perfetto per un simpatico e progressista John Glenn.
Sotto, basta archi e spazio a una colonna sonora soul e jazz che ci sta sempre bene, e sopra un po' di enfasi - legittima - sul pragmatismo positivista della scienza: perché, dice Coster sbottando sulla faccenda del bagno, "qui alla NASA la pipì è tutta dello stesso colore".
E allora ecco che te lo guardi, Il diritto di contare, ti ci rilassi davanti e quasi non ci credi che poco più di cinquanta anni fa le cose stavano in quel modo, e poi ci pensi e capisci che di passi avanti non ne abbiamo fatti ancora abbastanza, per i neri, per le donne, per tutti coloro cui viene tolto qualche diritto, negata qualche possibilità. Nonostante la scienza, la NASA, nonostante Katherine Johnson, Dorothy Vaughn e Mary Jackson. La cui storia doveva essere raccontata: anche al cinema, anche così.

Fonte: QUI