E’ folgorante e meravigliosa, potente e lirica - e quasi metafisica alla luce di ciò che avverrà dopo - la sequenza in mare di Riparare i viventi, che, dopo un addio fra innamorati all’alba alla "Romeo e Giulietta", fotografa l’attesa sulla tavola da surf (da parte di 3 ragazzi) del tubo in cui infilarsi e poi dell’onda da cavalcare per fondersi con l’acqua, la natura e il cosmo nella sua interezza, regalando un senso di gioia e di compiutezza che che l’ostilità delle condizioni climatiche non può in nessun modo guastare. E’ straordinaria (anche nel suo colore grigio, la sua luce fioca e nello stile di regia che la innalza al di sopra di molto cinema contemporaneo) perché racconta, in breve, l’energia pulsante di un corpo giovane, fiero e trionfante, un corpo strappato alla vita e ai palpiti dell’adolescenza che diventa l’involucro di un cuore da trapiantare in un altro petto, meno giovane, più stanco, più affannato.
Disteso prima in un letto d’ospedale e poi sul lettino di una sala operatoria, questo corpo costituisce il punto di partenza di un vorticoso girotondo schnitzleriano di quasi due ore, del diario intimo di una summa di esistenze che ruotano tutte intorno al bisogno di trovare la propria conferma nell’affetto dell’altro. E difatti, pullula di figli che vogliono il bene dei genitori, di genitori che non si rassegnano a perdere i figli, di uomini che amano donne, di donne che amano donne e uomini e donne che forse un giorno si ameranno il terzo film di Katell Quillévéré, ed è una cosa importante e bella, perché non è facile narrare la vita e la trepidazione quando si parla di morte, pur appoggiandosi a una storia già messa per iscritto da altri.
E comunque, per la regista, adattare il famoso e omonimo romanzo di Maylis de Kerangal non è stato affatto semplice, dal momento che la vicenda di Simon che “salva” Claire gridava al rispetto di una vasta pluralità di punti di vista e imponeva, nella gestione della disperazione e della preoccupazione, una generale sobrietà. La nostra impressione è che nel film la seconda regola sia stata seguita più della prima. Lo dimostra il fatto che Riparare i viventi rifiuti per esempio di costruire un microcosmo ospedaliero frivolo come quello di un Grey’s Anatomy, insista sulla dignità di un dolore che porta a implodere più che a esplodere, e soprattutto restituisca la verità di due operazioni a cuore aperto senza indulgere nel macabro o nella facile spettacolarizzazione.
Quasi documentaristico per come immortala le fasi dell'intervento, in questa parte il film non è affatto freddo, perché prima di arrivare a quella violazione della pelle (e quindi del nostro sacro involucro) che è la chirurgia, si sofferma, con piccoli tocchi leggeri, su un’umanità in cui brulicano le emozioni e le passioni, che affiorano inevitabilmente nel luogo di lavoro. E poi ci sono il volto intenso della madre coraggio Emmanuelle Seigner, lo sguardo dolce della mamma bambina Anne Dorval - che guarda E.T. alla televisione insieme ai figli - e c’è soprattutto quell’unico flashback che ci mostra Simon che corre in bicicletta per dare il primo bacio alla ragazza che gli piace. E il suo cuore batte, e batte anche il cuore del film.
Passando al mosaico di vissuti, ai destini che si intrecciano, al passaggio del testimone da un personaggio all’altro, non sempre Riparare i viventi riesce ad accordasi al respiro del libro di partenza, restringendo il numero, per così dire, degli approfondimenti psicologici, o svelando particolari che solo la conoscenza del romanzo può illuminare di significato. E allora forse sarebbe stato meglio limitare le prospettive da cui guardare il mondo, e magari anche movimentare di più la parte dedicata a Claire, in cui il ritmo rallenta e il film si impenna prima della cavalcata finale: prima del momento in cui bisogna proprio chiedersi (ed ecco la metafisica) come mai, nonostante i progressi della medicina, l'antico dilemma della morte continui, implacabile, a tormentarci, irrisolto, durissimo, inaccettabile.
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